«Da palestinese, la prima cosa che impari è che probabilmente morirai. Devi impegnarti perché la tua vita potrebbe finire tra dieci minuti», ha dichiarato qualche tempo fa la famosissima DJ palestinese Sama’ Abdulhadi al The Guardian.
Nata in Giordania, nipote di Issam Abdulhadi, nota attivista per i diritti delle donne palestinesi costretta dall’esercito israeliano a lasciare la propria terra. Un’infanzia divisa tra guerra e sport, poi la scoperta della musica techno in adolescenza le cambia la vita.
Sama’ conduce un’esistenza da nomade, che l’ha spinta nei punti nevralgici mondiali del panorama musicale: dal Cairo, Ramallah, Londra, Amman, Beirut – dove afferma di aver ascoltato alcuni tra i DJ più talentuosi della scena elettronica – ed ora Parigi. Divenuta famosa grazie ad un Boiler Room di quasi un’ora trasmesso gratuitamente in streaming a Ramallah nel 2018, ha partecipato a decine di festival di fama internazionale, tra cui il Coachella. Arrestata ingiustamente nel 2020 e detenuta illegalmente in carcere per 8 giorni per un set registrato in un bazar, in prossimità di una moschea, nonostante il permesso del ministero de Turismo, viene rilasciata grazie alle 101.000 firme raccolte su Change.org. Come sua nonna, la “regina della techno palestinese” continua a difendere i diritti del suo popolo, a raccogliere fondi, a promuovere campagne di sensibilizzazione tramite i concerti ed i social, a raccogliere testimonianze di artisti che parlano di emarginazione tramite il progetto “Resilience”.
Sama’ Abdulhadi combatte e lo fa utilizzando la musica techno, storicamente nata come ribellione ad un senso di oppressione, e che oggi si riconferma come un potente inno alla libertà. Il suo sound, fatto di battiti profondi e suoni elettronici, si diffonde nel mondo come un potente grido di protesta.